«Genova chiusa da sbarre, Genova soffre come in prigione

Genova marcata a vista attende un soffio di liberazione

Dentro gli uffici uomini freddi discutono la strategia

E uomini caldi esplodono un colpo secco, morte e follia

Marionette si muovono, cercando alibi per quelle vite

Dissipate e disperse nell’aspro odore della cordite»[1]

Francesco Guccini

Un ambiente labirintico

Se c’è un luogo meno adatto a ospitare un evento ad alto rischio di contestazioni e – al limite – insorgenze ribellistiche, quello è la città di Genova. A partire dalla configurazione del suo spazio urbano, in cui la sede obbligata – il grande contenitore di Palazzo Ducale in piazza De Ferrari – è come una nave arenata nel mare oscuro e misterioso di vicoli medievali, detti caruggi (dall’arabo kharuj, “uscita verso il mare”), del più grande centro storico d’Europa.

L’appuntamento con i Grandi della terra era stato programmato tra il 19 e il 22 luglio 2001, con padrone di casa il neo-presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; in sella appena dall’11 giugno di quell’anno. Dunque, in una sede scelta dai precedenti governi di centro-sinistra. Addebitabile in pratica all’ex primo ministro Massimo d’Alema, il cui intento era stato premiare la città guidata da un’amministrazione amica – con il sindaco già craxiano e all’epoca dalemiano Beppe Pericu; che verrà costantemente rinfacciato agli ex comunisti dalla propaganda di destra. Ma che stava offrendo al capo del governo in carica un’impagabile vetrina per i suoi scopi di immagine. Davanti a un parterre de rois composto – nientemeno – che dai governanti degli otto Paesi più industrializzati del mondo.

Perché di retro-pensieri inconfessabili (e ugualmente miserevoli) è intrecciato il nodo scorsoio che si trasformerà nel cappio mortale di quei fatidici giorni.

Con questo lasciamo da parte il movente – teorizzato secondo il suo abituale approccio cospirativo da Giulietto Chiesa, che seguiva il summit per il quotidiano torinese la Stampa – in base al quale il presidente USA George Bush Jr. andava alla ricerca di un drammatico diversivo. A suo dire, l’amministrazione americana si era resa conto che «la politica fiscale di George W, generosissima verso i ricchi, non stava producendo nessun beneficio in termini di investimenti e di ripresa dei consumi». Sicché «la recessione dell’economia sarebbe stata ufficialmente riconosciuta soltanto a metà novembre di quell’anno (per inciso notiamo: dopo l’11 settembre), ma venne rivelato, allora, che essa era già stata rilevata dall’aprile 2001»[2]. Dunque, un po’ di tafferugli sullo standard di quanto era avvenuto già nel 1999 durante il meeting OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), in cui fece la sua apparizione minacciosa il Movimento No-Global (poi denominato “il popolo di Seattle”), avrebbero consentito di valorizzare il ruolo muscolare “legge e ordine” della presidenza stelle-e-strisce agli occhi dei piccoli risparmiatori impauriti. Ancora non si poteva prevedere la catastrofe delle Torri Gemelle, giunta in tempo a nascondere problemi e responsabilità presidenziali nella successiva svolta bellicista in Medio Oriente.

Chi vuole che cosa

Ciò detto, ci concentriamo – piuttosto – sui nostri governanti di quel momento.

Per Silvio Berlusconi, assunte le vesti troppo larghe di raffinato arredatore urbano, l’appuntamento è un’occasione dalle dimensioni mondiali da trasformare in uno spot dello stile Mediaset: plastica ed esibizionismo da arrampicatore sociale. Stile ridicolo da cumenda brianzolo (come i doppiopetti con “revers ascellari sogno da ragioniere” sfoggiati dall’allora Cavaliere. Già allora Burlesquoni, per i francesi).

Un approccio che si rivelerà grottescamente fuori luogo quando la vicenda inizierà a piegare dalla farsa macchiettistica alla tragedia. Ma allora – nelle settimane precedenti l’avvio – catturò l’attenzione l’impegno del premier per allestire, in quattro visite successive, un set genovese in linea con la sua estetica. In cui il problema più impellente risultava quello di contestare l’uso mediterraneo locale di stendere alle finestre la biancheria di bucato; che contrastava l’idea leccata e asettica, artificiale come le clonature dell’ambiente urbano tipo Milano 2, della lookologia Publitalia.

In seguito, qualcuno avrebbe detto che “si era prestata più attenzione alle fioriere che alle frontiere”. Ossia, si cazzeggiava mentre nubi minacciose stavano addensandosi ai confini, rappresentate dalle terrorizzanti torme in arrivo di Black-Bloc, o Schwarzer Bloch in tedesco. Più che un soggetto, una tattica di individui dalle diverse provenienze nazionali, in costante aggregazione e disaggregazione situazionale, dediti a tradurre il loro ribellismo anarcoide in vandalismo, devastazioni e scontri con le forze dell’ordine.

La personificazione di una rabbia sociale incontrollabile che nei mesi precedenti aveva già dato inquietanti prove di sé; in costante crescendo: 27 gennaio a Davos in occasione del Forum economico mondiale, dal 15 al 17 marzo a Napoli e il 15 giugno a Göteborg, per il Summit europeo. E sempre nelle stesse modalità: gruppuscoli di casseurs pronti a tutto che si mimetizzano in vaste manifestazioni popolari di protesta contro le politiche predatorie e antipopolari della globalizzazione finanziaria promosse dalla Organizzazione Mondiale del Commercio e dal Fondo Monetario Internazionale, pronti a balzare fuori al momento opportuno per il loro selvaggio mordi e fuggi.

Dunque, una presenza altamente inquietante e che produrrà tutti i suoi effetti disastrosi durante le successive settimane. Ma di cui i responsabili – premier in testa – non danno segno di accorgersene.

Il giornalista Giuseppe D’Avanzo – analizzando le ammissioni da parte dell’allora Capo della Polizia Gianni De Gennaro, successive alle mattanze e alle macerie prodotte da irruzioni barbariche, alle provocazioni di elementi infiltrati nei cortei pacifici (tanto appartenenti al blocco nero camuffati da tute bianche come agenti sotto copertura) – commentò: «conferma che il lavoro dell’intelligence è stato modesto al punto di non sapere anticipare il numero dei Black-Bloc in arrivo in Liguria e soprattutto le loro intenzioni e mosse»[3]. Ma è credibile questo eccesso di sprovvedutezza da parte di un super-poliziotto, astuto e abilissimo nel cadere sempre in piedi, quale il De Gennaro?

Una disattenzione che – tra l’altro – mette immediatamente fuori gioco un’altra opzione; dopo quella frivola berlusconiana, politica tra il simbolico e il dichiarativo. Ossia il lungo lavorio in atto da un anno che vede le istituzioni soprattutto locali – sotto la guida dell’ambasciatore Umberto Vattani, segretario generale della Farnesina e nominato supervisore del G8 – per operare le necessarie mediazioni sociali con le oltre 700 associazioni collegate nel Genoa Social Forum (GSF), i cui referenti sono il portavoce Vittorio Agnoletto e il leader delle “tute bianche” Luca Casarini; entrambi ossessionati dal timore che i movimenti anarcoidi di estrema destra, con i cani sciolti Black Bloc in combutta con Forza Nuova e il Fronte Sociale Nazionale, ottengano il risultato di screditare l’area di sinistra antagonista anti-G8. Una trattativa finalizzata a quanto l’allora questore genovese Franco Colucci definì “una sceneggiata”. Sulla base di uno scambio politico: agli antagonisti veniva concesso di violare simbolicamente la zona vietata (lo spazio cittadino dove si sarebbe svolto l’evento era stato blindato in una “zona gialla” ad accesso limitato e una “rossa” severamente riservata e presidiata da circa 7mila agenti) per mettere in evidenza il ruolo del GSF; le istituzioni locali avrebbero potuto ostentare tutta la propria capacità di tenere sotto controllo e governare le tensioni ribellistiche, a tutela dell’ordine pubblico, facendo marciare in testa ai cortei – fianco a fianco – Agnoletto e il sindaco Pericu.

Proprio all’inizio di luglio, un fascicolo riservato della questura di Genova (“Informazioni sul fronte della protesta anti-G8”) evidenziava l’estremo pluralismo dei partecipanti alle manifestazioni e il loro variabile grado di pericolosità: dal “blocco rosa” delle organizzazioni cattoliche e ambientaliste alla rete Lilliput dei nonviolenti. Dunque, i naturali interlocutori per una strategia di controllo che spettacolarizzi l’evento senza conseguenze pericolose.

Quell’opera di mediazione che viene fatta rapidamente fallire da una tambureggiante opera di allarme sociale facendo di ogni erba un fascio, nero. Il cui fine è diffondere paura e nevrotizzare i 20mila agenti di pubblica sicurezza messi in campo; a parte i precettati alla difesa della zona rossa, in larga misura sparpagliati e dispersi in zone cittadine decentrate; lontane dai luoghi canonici del G8: da via Canevari sul lungo Bisagno e via Archimede dietro la stazione Brignole a piazza Alimonda.

Intanto – fallita la strategia tendente a distinguere e dialogare – le istituzioni locali smarriscono ogni ruolo di governo delle dinamiche in corso: il presidente della Regione Sandro Biasotti di Forza Italia, in bilico tra gli estetismi berlusconiani e la polemica anti sinistra, è più interessato all’ottenimento del DOP per il basilico della Riviera; il sindaco Pericu, privato del karma salvifico di riconciliatore delle parti, si aggira come un pugile suonato nei dintorni di Palazzo Ducale con la fascia tricolore che gli ballonzola sui fianchi (solo la cortigianeria di un cronista locale lo definirà “il sindaco eroe del G8”); l’unico soggetto attrezzato politicamente e con capacità di analisi – la presidente della Provincia Marta Vincenzi – continua a segnalare i movimenti di Black Bloc a Levante, ma nessuno dei soggetti d’ordine in campo si premura di prestarle ascolto: perché accettarne le indicazioni significherebbe tornare a distinguere, riaccreditando la tesi che il Genoa Social Forum, pur con tutte le sue ambiguità, rimane un soggetto con cui è opportuno mantenere il dialogo.

Quanto invece emerge è un altro retro-pensiero, che sta diventando esplicito e dominante: andare allo scontro, come messaggio muscolare; vuoi per il proprio elettorato, vuoi per il sistema mediatico. Questo avviene per il convergere di due diverse promozioni concettuali; sinergiche ma non necessariamente concertate: di alcuni politici del governo in carica; nella ricostruzione della realtà a mezzo disinformazione da parte dei servizi e di corpi dello Stato.

Nel primo caso si tratta del Vice Presidente del Consiglio – il neo/post fascista Gianfranco Fini – che per tutto il G8 si aggira nelle caserme e nei bivacchi militarizzati assicurando il totale appoggio del governo a interventi repressivi anche brutali; cui fa da controcanto il ministro degli interni Claudio Scajola, il quale ammetterà di aver dato l’ordine di sparare qualora i manifestanti avessero violato la zona rossa.

Riguardo alla disinformazione anti-GSF, accolta acriticamente dai media nazionali, Limes ricorda che «la Repubblica definiva le veline del Sisde ‘la soglia più alta di brivido’, aggiungendo che chi aveva letto l’informativa s’era messo le mani nei capelli. Uno dei più autorevoli richiami al senso della realtà veniva – curiosamente – dal vice capo vicario della Ps, Ansoino Andreassi, secondo cui l’eccesso di enfasi rischiava di avere ‘solo effetti negativi, sia sul nostro personale che sui malintenzionati’»[4].

Una nuova strategia della tensione

Sempre su Limesriguardo ai modelli di rappresentazione che vengono imponendosi grazie a una disinformazione terroristica – se ne poteva leggere un florilegio: «la minaccia che gravava sul G8 era impressionante: un centinaio di fionde per lanciare biglie di vetro e bulloni (Tute bianche), tubi di ferro come rampa per fumogeni e bombe carta (autonomi), pitbull da aizzare contro gli agenti (squatters e punkabbestia), clonazioni di siti web per diramare ‘notizie modificate’ (Freaknet di Catania), buste con sangue di maiale infetto (contestatori in arrivo dalla Germania), attacchi vari con alianti, parapendii, piccole imbarcazioni e kayak e infine l’invio simultaneo di sms con istruzioni ai manifestanti. A cose fatte, il comandante dei reparti militari schierati a Genova, ammiraglio Bettini, disse che i suoi uomini avevano protetto il G8 da aeroplanini radiocomandati, deltaplani e guerriglieri subacquei. Magari l’ammiraglio avrà creduto a tali minacce perché le aveva lette in un dossier, ma i comuni mortali erano piuttosto scettici su quelle fantasiose mascalzonate»[5].

Si diceva, una costruzione della realtà indipendente dai disegni sovversivi di politici avventuristi, maturata in ambienti istituzionali centrali come volontà revanscista priva di una regia strategica. Senza un centro promotore che organizza e dirige. Insomma, qui non c’è una villa Wanda a Castel Fibocchi dove finanzieri e magistrati scoprono gli elenchi della P2. È più un sentire insofferente in cerca di rivincite. Perché ritiene che il momento dei regolamenti di conti è giunto, che il luglio genovese è l’occasione attesa. Anche perché il contrasto democratico alla rinascente strategia della tensione non esiste. La sinistra stenta a capire l’accaduto e in qualche misura è in imbarazzo per evidenti correità: le giornate napoletane di marzo, in cui i manifestanti contro il Global Forum patrocinato dall’ONU furono vittime di violenze fisiche e morali, sputi e percosse da parte della forza pubblica (con i dieci poliziotti e i due funzionari condannati in primo grado per il solo reato di sequestro di persona, poi caduto per prescrizione) avvengono mentre governa la coalizione di sinistra guidata da Giuliano Amato. E anche la società è profondamente cambiata.

A titolo personale ricordo in quei giorni terribili di aver incontrato il console dei camalli del carbone, quegli stessi che il 30 giugno 1960 salirono dalle banchine e dalle officine del porto fino a piazza De Ferrari, armati dei loro ganci da stivatori, per cacciare i fascisti dal centro di Genova e mettere in fuga pure le camionette poliziesche di Tambroni; ripristinando l’ordine democratico cittadino.

Gli feci presente che – con i corpi di polizia impegnati soltanto nella protezione dei Grandi della Terra – interi quartieri periferici della città erano stati abbandonati alla furia devastatrice incontrastata; e che solo la forza organizzata dei lavoratori del porto poteva assicurare l’agibilità civile dello spazio pubblico, proteggendo le persone inermi e i loro beni dai nuovi nazifascisti. Come avvenne quarant’anni prima. Nella tradizione degli “arditi del popolo”, che in Liguria seppero respingere le squadracce nere.

Purtroppo la risposta ricevuta mi fece capire come perfino i portuali non fossero più quelli fieri e indomabili di un tempo.

Credit foto: Berlusconi e Bush – Ansa Epa Photo Dpa Oliver Multhaup Cd; Carlo Giuliani – Luca Zennaro Archivio Ansa Ji; Polizia – Luciano Del Castillo Ansa


[1] F. Guccini, Piazza Alimonda

[2] G. Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli, Milano 2002 pag.32

[3] G. D’Avanzo, “I responsabili di Genova”, la Repubblica 9 agosto 2001

[4] Antonio Sema, “Limoni e sangue”, Limes 4/2001

[5] ivi